Racconta chi sei, cosa fai, come lo fai. Dimenticati dei tuoi clienti e racconta di quanto sei richiesto, influente, figo. Ecco perché a me il Personal Branding ha rotto le palle.
Ci ho provato e riprovato a non scrivere questo post. Sono mesi che lo covo dentro, lo appallottolo e lo getto lontano da me, ma lui è come una spugna: si riempie del mio fastidio e del mio malumore ogni qual volta leggo il solito post autoreferenziale su Facebook del professionista X.
Alla fine ho letteralmente gettato la spugna e ho lasciato che le parole fluissero naturalmente dalle mie dita. La spugna ha vinto. So che dopo questo articolo posso salutare la mia promettente carriera, perché ehi!, non c’è blogger o professionista che non ci abbia fatto una testa così sul come faccia male al personal branding mostrarsi critici e negativi.
Il Personal Branding è un processo attraverso cui un’azienda o una persona definisce i punti di forza (conoscenze, competenze, stile, carattere, abilità, ecc.) che la contraddistinguono in modo univoco, creando un proprio marchio personale, che comunica poi nel modo che reputa più efficace. Il personal branding adotta le tecniche utilizzate dal Marketing per promuovere i prodotti commerciali e le adatta per la promozione dell’identità delle singole persone e delle aziende (piccole e medie imprese o aziende personali). L’obiettivo in entrambe i casi è il brand positioning ovvero posizionare nella mente dell’utente il brand (o il nome del professionista) associato a una precisa peculiarità, a un concetto che inequivocabilmente lo distinguerà dai concorrenti. (fonte Wikipedia)
Così, giusto per iniziare.
Ai giorni nostri il Personal Branding è strettamente legato con la Web Reputation (la reputazione che tutti noi abbiamo online) e i Social Media. Questi ultimi sono gli strumenti più utilizzati dai professionisti per promuovere se stessi, i loro prodotti e i loro servizi.
Forse ho una visione falsata, perché la maggior parte dei miei contatti sui social network non sono amici o parenti, ma persone che fanno più o meno il mio stesso lavoro, vivono più online che offline o sono freelance quanto me: per questo i contenuti sono più o meno sempre gli stessi.
Il problema è che la promozione non può essere considerata contenuto e che la prima supera di gran lunga la seconda.
Cosa so sul Personal Branding
Circa un anno fa si è svolto online SheFactor, un progetto che insegna alle donne a promuoversi attraverso gli strumenti della rete. Alle partecipanti è stato chiesto di individuare una professionista brava a promuoversi online e tra i vari nomi è saltato fuori pure il mio. Quando me l’hanno raccontato ci sono rimasta un po’ male, perché in realtà il Personal Branding credo di farlo poco e male: seleziono con estrema cura i contenuti che voglio proporre alle mie cerchie e la mia regola è che condivido solo contenuti scritti da altri ma che avrei voluto scrivere io.
I contenuti che vengono fuori dalla mia penna sono altrettanto rari. Ho fatto un periodo a scrivere su questo blog tutti i giorni lavorativi, cinque giorni su sette. Poi una che ne sa più di me mi ha scritto per dirmi “Laura basta, non se ne può più dei tuoi post. La gente non ha tempo di rimanere aggiornata su tutto quello che scrivi, perché tra le altre non sei l’unica che leggono”. Ammetto che per lì per lì ci sono rimasta molto male anche perché a me pareva di andare alla grande: “le visite e i fan continuano a crescere, perché dovrei smettere di scrivere?”. Mesi dopo ho trovato la risposta: “visite e fan sono vanity metric, ovvero sono dati con cui imbellettarti il naso, se poi i tuoi fan non commentano o non condividono ciò che scrivi, a cosa è valso il tuo lavoro?”.
Insomma, riempire la timeline dei miei post non era fare personal branding.
Allo stesso modo: farsi i selfie con il personaggio più o meno famoso non è fare personal branding. Ammorbare con il fatto che devi avere l’immagine di profilo su Facebook che ti rappresenti in pieno, non è fare personal branding. Pubblicizzare strenuamente i tuoi corsi, i tuoi ebook, i tuoi servizi, non è fare personal branding. È poracceria. È rompere le palle.
Il Personal Branding lo fa il tuo cliente
Da qualche giorno sto avendo uno scambio di email molto interessante con una mia cliente. Il suo cruccio è: sono specializzata in due settori diversi, che possono convivere tra di loro, il problema è che online le persone mi riconoscono come professionista in uno solo dei due settori. Come la risolvo? Sto sbagliando?
La mia risposta è stata: sì. Ma, cara cliente, non è colpa tua.
Ci hanno insegnato che il Personal Branding è parlare di noi e di quel che facciamo – senza essere autoreferenziali – ma il risultato è che davvero in pochi riescono nell’impresa.
Penso che pochi sappiano davvero cosa vuol dire fare Personal Branding e pochi conoscono che percezione hanno le persone online di loro o del loro brand. Perché la vera differenza sta qui: non personal branding – o non solo – ma soprattutto percezione del nostro brand.
Crediamo di fare Personal Branding ma ce la tiriamo troppo e non abbiamo ancora capito che il nostro personale e vero successo non è mostrarsi richiesti o competenti, ma riuscire ad ascoltare le altre persone, leggi: i nostri clienti.
Perché non parliamo più ai nostri clienti? Quando abbiamo smesso di farlo? L’abbiamo mai fatto? Vi siete mai chiesti davvero che cosa vogliono? In cosa possiamo essergli davvero utili?
Un buon personal branding sta nel comunicare con i nostri clienti o possibili tali. È un lavoro complicato perché presuppone chiudere la bocca e aprire le orecchie: cercare i nostri clienti, ascoltarli, mettersi nei loro panni. E poi riflettere, far diventare nostri i loro problemi e dar loro una soluzione come professionisti. Lavorare con loro a stretto contatto e farlo bene, scendendo dal piedistallo su cui siamo saliti senza che nessuno ci mettesse, dà come risultato quasi certo che i nostri clienti parleranno di noi con altre persone. E lo faranno bene.
Di contenuti, brand e percezioni
Quando ho iniziato a scrivere su questo blog pubblicavo, come dicevo, solo tutorial: come si fa questo, come si fa quell’altro. Quei post poteva scriverli chiunque: io non esistevo, e a quel tempo mi andava bene così.
Con il tempo scrivere solo tutorial ha cominciato ad andarmi stretto: volevo dire la mia, soprattutto sul mio lavoro. I post sui tutorial sono diventati sempre meno, fino a sparire, lasciando il posto ad articoli che parlavano della mia professione. Ho perso un po’ di fan, ne ho trovati altri.
Ricordo che in seguito a questa mia scelta una persona mi ha scritto per dirmi che sembravo sbocciata come un fiore. Questa affermazione mi lusingò da un lato e dall’altro mi fece riflettere: se lei pensava questo di me voleva dire che là fuori c’erano altre persone che la pensavano allo stesso modo. Ero però stata io a nascondermi, io a non mostrare a tutti che dietro al logo di un unicorno non c’erano solo toni pastello e tutorial, ma una testa pensante. È brutto, ma è così: se online hanno una percezione di te che pensi sia sbagliata è perché molto probabilmente ti stai muovendo male: forse stai usando i canali sbagliati o forse il tuo modo di comunicare non ti rappresenta davvero.
Chiudo riassumendo con un post di Mafe De Baggis: “Che sia branding, engagement, storytelling se si vede lo state facendo sbagliato”. Perché il Personal Branding è invisibile, aggiungo io.
Meditate gente, meditate e ricordate che ogni volta che ve la tirate sui social network, baby George vi guarda schifato, così:
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